Emergono nuovi particolari sull’inchiesta dell’autorità giudiziaria riguardante il caso dell’assassinio di Samir Boudjemai, il cameriere algerino ucciso il 4 novembre scorso a Palermo, avvenuto per mano del tunisino Alì El Abed Baguera: per gli inquirenti il mandante dell’omicidio fu lo zio di quest’ultimo Kalim El Abed.
L’accusa è messa in evidenza sull’ordinanza di convalida del fermo del 61enne tunisino, da parte del GIP di Palermo Elisabetta Stampacchia.
Il movente dell’omicidio sarebbe basato sulla rivalità molto accesa fra Samir Boudjemai e Alì El Abed Baguera (attualmente detenuto al carcere Pagliarelli), entrambi alle dipendenze di due ristoranti diversi in qualità di “buttadentro”, e che si contendevano i clienti nei locali situati nella stessa zona.
Il giudice ha emesso l’ordinanza di custodia cautelare perché nel telefonino di Kalim sono state scoperte due foto di una pistola che, nonostante non sia stata ancora ritrovata, secondo gli investigatori, sarebbe compatibile con quella usata per l’omicidio di Samir.
Sono state, inoltre, ricostruite le fasi dell’assassinio del cameriere algerino, grazie alle riprese effettuate dalle telecamere di sorveglianza installate nella zona.
Kalim e suo nipote Ali si sarebbero appostati all’interno di Oro Mixology, un locale di fronte al ristorante Al Magnum che era nella loro disponibilità, per controllare il ristorante Appetì dove lavorava Samir, considerato il loro rivale, nonché acerrimo nemico.
Quando Samir finì il suo turno di lavoro si era diretto verso via Emerico Amari: un minuto dopo, una persona dal fisico robusto, vestita interamente di scuro con indosso un giubbotto e un cappuccio e con i capelli rasati ai lati lo avrebbe seguito fino a raggiungerlo davanti alla farmacia delle Poste in via Roma.
Proprio in questi paraggi, quella persona sospetta, che secondo gli investigatori sarebbe Aly Elabed Baguera, avrebbe estratto dalla tasca destra una pistola per sparare a Samir Boudjemai, per poi darsi alla fuga dirigendosi in direzione di via Valverde, mentre il corpo della sua vittima era a terra adagiato su una pozza di sangue.
In base alle indagini la famiglia El Abed era molto temuta nei pressi del porto in via Emerico Amari, specialmente Kalim che non permetteva a nessuno di ostacolare i suoi affari, minacciando chi osava sfidarlo di sicure ritorsioni.
Nel corso di un caso analogo, avvenuto qualche mese prima dell’omicidio di Samir, veniva ben delineato il quadro della situazione che dovevano affrontare i commercianti della zona.
A gennaio i titolari di un negozio di souvenir, situato proprio accanto al ristorante della famiglia El Abed, avevano presentato una denuncia riferendo di essere stati aggrediti.
Si erano lamentati perché i loro vicini gli avevano messo un cartellone e degli oggetti davanti all’ingresso impedendo così l’ingresso dei clienti alla loro attività commerciale.
La reazione di Kalim El Abed non si fece attendere: il tunisino aggredì uno dei proprietari colpendolo brutalmente, e lasciandolo a terra.
Per gli inquirenti un fatto simile, che dimostrerebbe l’indole violenta dell’indagato, peraltro imputato in un processo ancora pendente per maltrattamenti in famiglia, si va ad aggiungere ad una serie di reati già registrati in diversi fascicoli che lo riguardano, e che fanno presupporre quindi la fondatezza dell’accusa a suo carico di essere proprio lui il mandante dell’omicidio di Samir.
«Dal casellario giudiziale si evincono numerosi precedenti per reati contro la persona, oltre che contro il patrimonio, caratterizzati dall’uso di atteggiamenti violenti e prevaricatori anche nei confronti dei membri della propria famiglia come nel caso, non unico ma sicuramente il più recente, della sottrazione del nipote di due anni per il quale l’indagato è stato condannato» – ha dichiarato il GIP di Palermo.
Il nome di Kalim El Abed, in particolare è legato ad una storia inquietante: un omicidio, avvenuto nel 2007 a Partinico, di un fruttivendolo dello Zen, Salvatore Saffina, strangolato e poi dato alle fiamme per una vicenda a sfondo passionale.
Kalim El Abed finì in galera, accusato di avere commesso l’omicidio dopo la scoperta di una relazione fra sua moglie e Salvatore Saffina, all’epoca 41enne e sposato con figli.
La Corte d’assise, però, lo aveva assolto con formula dubitativa; infatti, il suo legale Salvino Caputo, che lo assiste attualmente, aveva fatto valere la tesi secondo la quale il processo fosse indiziario, senza prove, sottolineando anche come l’imputato, in base ai tabulati telefonici, nelle ore precedenti al delitto si trovasse allo Zen, dove abita tuttora, e non a Partinico dove venne rinvenuto il cadavere bruciato di Saffina.
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