C’è un momento dell’anno in cui in Sicilia le vetrine delle pasticcerie si colorano e, andando in giro per i vicoli delle città, si sente un odore che ricorda l’infanzia. È la fine di ottobre, quando la tradizione si fa viva nei nostri desideri e le tavole si riempiono di variopinti dolcetti dalle forme più disparate.
Stiamo parlando dell’arcinota frutta martorana, un dolce tipico della festa dei morti, che nulla a che vedere con la più “horror” festa di Halloween importata dai Paesi anglicani. Per noi, infatti, è un momento di commemorazione dei nostri amati defunti, durante la quale i più piccoli ricevono dei cesti pieni di dolci che simboleggiano il dono mandato da chi non c’è più.
Un gesto che si ripete ogni anno da secoli, così come da secoli il gusto e la vista si rifanno in prossimità di una giornata che ancora oggi nell’isola viene sentita in modo particolare.
Forse non tutti sanno, infatti, che i fruttini più famosi al mondo prendono il nome dall’aristocratica Eloisa Martorana. Fu lei, nel 1194, a fondare un monastero benedettino (adiacente alla chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio, detta appunto “La Martorana”), al cui interno si poteva ammirare il giardino più bello della città, ricco di rose profumatissime, alberi di aranci, cedri e limoni.
Leggenda vuole che la frutta martorana sia stata inventata proprio dalle monache che soggiornavano in quel convento. Un giorno di fine ottobre arrivò al loro orecchio l’annuncio di un’inaspettata visita del re di Sicilia Ruggero II, curioso di vedere con i propri occhi il meraviglioso giardino di cui tanto si parlava in giro per il regno.
Una notizia che creò subito scompiglio e caos: gli alberi e i rosai del chiostro che in primavera coloravano il giardino rendendolo unico, in autunno erano tristi e spogli, senza fiori e senza frutti. Una delusione annunciata.
Fu una delle suore, colei che preparava le pietanze, a trovare una soluzione. Tempo prima aveva cominciato a realizzare un dolce a base di mandorle e miele facile da manipolare. La sua idea, quindi, fu di utilizzare quell’impasto per realizzare dei fruttini dipinti e di appenderli tra i rami degli alberi.
Un’idea originale che trovò l’apprezzamento di Ruggero II. Arrivato il tanto atteso giorno, infatti, quella frutta colorata colpì subito il re che esclamò: «Devo farvi i miei complimenti, madre. Il vostro giardino è l’unico in tutta la città ad avere alberi così carichi di frutti maturi. Viene quasi voglia di assaggiarli».
Soltanto staccando un’arancia per sbucciarla si rese conto del “dolce” inganno e scoppiò in una fragorosa risata, contento comunque dell’omaggio che le monache gli avevano fatto. Data la sua reazione, un cancelliere aggiunse: «Sono dolci degni di un re, sono proprio regali, potremmo chiamarli pasta reale!».
Una storia che fa sorridere e che non sapremo mai se vera. Leggenda o meno, “martorana” o “pasta reale” che dir si voglia, però, quel che è certo è che la tradizione è ancora presente dopo secoli e che i fruttini di mandorle continuano a meravigliare la vista tanto quanto deliziare il palato.
Claudia Rizzo – Palermo Post