Proseguono le indagini sui fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro

Nicola Scardina
da Nicola Scardina
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Proseguono a ritmo serrato le indagini delle forze dell’ordine per scoprire nuovi elementi utili alla ricostruzione dell’azione operata dai fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro, che ne hanno favorito la lunga latitanza, protratta in un arco di tempo quasi trentennale.

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Il lavoro degli inquirenti continua proseguendo dalla recente pista bagherese, aperta ieri, 30 gennaio, dopo il reinserimento nel registro degli indagati di Maria Mesi, e del fratello Francesco, a seguito delle indagini che hanno condotto ad una perquisizione nell’abitazione dei Mesi ad Aspra (frazione di Bagheria), e che si è estesa anche ad un casolare di campagna, e ad una torrefazione da loro gestita nel borgo marinaro.

Sui i due grava nuovamente l’accusa, come 23 anni fa, di favoreggiamento, reato per cui entrambi erano stati condannati in via definitiva.

Maria Mesi scontò soltanto 3 anni di pena perché in Cassazione è caduta l’aggravante mafiosa, incompatibile, secondo i magistrati, con la sua relazione amorosa con il boss. Francesco Mesi, invece, scelse il patteggiamento.

Anni dopo la condanna gli investigatori, a conferma di quanto erano già a conoscenza, trovarono le lettere d’amore che la donna inviava al boss mafioso.

Dalla corrispondenza saltata fuori in casa di Filippo Guttadauro, cognato di Messina Denaro e collegamento tra il boss latitante e il suo mondo, vennero fuori i pensieri intimi di una coppia che manteneva i propri rapporti in modo segreto.

Maria Mesi, che nelle lettere indirizzate al capo mafia, si firmava e si faceva chiamare “Mari” oppure “Mariella”, scriveva: Avrei voluto conoscerti fin da piccola e crescere con te, sicuramente te ne avrei combinate di tutti i colori perché da bambina ero un maschiaccio”.

La donna per anni ha lavorato nell’azienda “Sud Pesca”, impresa di conservazione del pesce, del fratello di Filippo Guttadauro, Carlo.

Francesco, invece, e la terza sorella Paola, erano alle dipendenze dell’ingegnere Michele Aiello, già condannato a 16 anni per mafia.

L’imprenditore, sospettato di aver investito i soldi del boss Bernardo Provenzano nella sua clinica di Bagheria, fu coinvolto nell’inchiesta sulle cosiddette talpe alla Dda: una rete formata da persone insospettabili, tra cui anche esponenti delle forze dell’ordine, che dando ai boss informazioni riservate hanno consentito loro, per anni, di evitare gli arresti.

Con le perquisizioni delle abitazioni degli antichi favoreggiatori gli investigatori proseguono dunque nel tentativo di ricostruire, come tessere in un puzzle, la lunga latitanza del boss.

In carcere sono già finiti: con l’accusa di associazione mafiosa Andrea Bonafede, il geometra di Campobello di Mazara, che gli ha prestato l’identità; e per favoreggiamento (come Maria e Francesco Mesi) Giovanni Luppino, l’incensurato che ha accompagnato il boss trapanese alla clinica Maddalena il 16 gennaio scorso, giorno dell’arresto.

Al vaglio degli investigatori vi sono anche le analisi delle immagini registrate dalle videocamere di sorveglianza installate a Campobello di Mazara, grazie alle quali è emerso che l’auto acquistata di persona dal boss a Palermo (una Giulietta) è stata ripresa sia sabato 14 gennaio, sia domenica 15, un giorno prima dell’arresto.

Il legale di Luppino, nei giorni scorsi, ha fatto sapere di aver presentato un’istanza di scarcerazione dell’assistito al tribunale del Riesame.

La tesi difensiva si basa sul fatto che “l’autista” dell’ex latitante ne avrebbe ignorato la vera identità, l’avrebbe conosciuto col nome di Francesco solo qualche mese prima e l’avrebbe rivisto la mattina stessa del blitz, quando il boss si presentò a causa sua per chiedergli un passaggio per il centro medico dove doveva fare la chemio. Una ricostruzione a cui i magistrati non credono”.

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