Rita Levi Montalcini diceva che «le donne sono la colonna vertebrale della società». Vale anche per la Sicilia? Guardando al risultato delle elezioni regionali di qualche giorno fa e alle pochissime deputate elette all’ARS, non sembrerebbe. Eppure basta ripercorrere i secoli per scoprire che proprio le donne sono state spesso esponenti e precorritrici di cambiamenti significativi che hanno fatto la storia.
D’altronde, anche la stessa isola è “femmina”. Leggenda vuole, infatti, che il nome “Sicilia” derivi da una principessa, figlia del re del Libano, che approdò sulle nostre coste a causa di un brutto presagio: a suo padre era stato predetto che la ragazza, a 16 anni, sarebbe morta divorata da un mostro.
Il sovrano decise, quindi, di salvarle la vita facendola salire su un’imbarcazione che l’avrebbe portata lontano dal suo Paese. Ecco così che Sicilia, dopo tre mesi di navigazione, approdò su un’isola molto grande ma desolata: l’unico abitante del luogo era un giovane sopravvissuto a una terribile peste. I due si innamorarono e diedero alla luce una nuova stirpe.
Dalla leggenda alla realtà il passo è breve. Perché da allora le donne di Sicilia, nonostante i bastoni fra le ruote, le difficoltà e i pregiudizi, non hanno mai smesso di guidarne la storia, influenzarla, migliorarla o cambiarla, facendo la differenza in una terra che ancora oggi ha problemi ad accettarne le qualità rivoluzionarie.
Non ci credete? Eccone alcune impossibili da dimenticare.
Virdimura. Catanese di origine ebraica, è considerata una delle più importanti donne nella storia della medicina. Dopo essersi sottoposta alla prova di abilità davanti a una commissione di esperti della famiglia reale, diventò infatti una “dutturissa” a tutti gli effetti: fu la prima donna al mondo ufficialmente autorizzata a esercitare la medicina e la chirurgia, come attestato in un documento del 7 novembre 1376 custodito nell’Archivio di Stato di Palermo. Un evento davvero straordinario se si pensa che durante il Medioevo molte donne, pur essendo delle vere e proprie dottoresse, venivano considerate streghe o fattucchiere. All’interno del documento, tra l’altro, per volere della stessa Virdimura, fu inserita una specifica richiesta, ossia di “poter curare i poveri e tutti quelli che non potevano pagare gli esosi onorari chiesti dagli altri medici”.
Francisca Massara. Secondo alcuni fu la prima donna italiana a indossare i pantaloni. Un abbigliamento comune al giorno d’oggi, ma troppo azzardato per l’epoca tanto che nessuno volle raccontarne maggiori dettagli, se non che fosse siciliana e che si mostrò in “abiti maschili” nel 1698. Il gesto, come ovvio, non poteva passare inosservato: i pantaloni per le donne, d’altronde, furono realmente accettati soltanto nel corso del XX secolo.
Dorotea Isabella Bellini e Geneviefa Bisso. Protagoniste di una disputa letteraria, possono essere considerate due antesignane del femminismo. Nel 1725, un noto farmacista di Palermo, di nome Luigi Sarmento e dal comportamento fortemente misogino, pubblicò un opuscolo intitolato “Lu vivu mortu”: una critica al mondo femminile e alle donne in generale che non piacque granché al mondo letterario, tanto che in molti si scagliarono contro di lui. Tra loro, anche Dorotea Bellini e Genoveffa Bisso, le quali replicarono in versi siciliani, realizzando quelle che possono essere considerate le prime pubblicazioni femministe. Le due donne furono, quindi, precorritrici di quello che in seguito sarebbe diventato un movimento globale per la difesa della parità dei diritti tra uomini e donne.
Maria Paternò. Baronessa catanese, fu la prima donna a ottenere il divorzio in Italia nel 1808, in virtù dell’articolo 296 del Codice Napoleonico allora vigente: al marito mosse le accuse di essere «seviziatore, turpe e taccagno spilorcio». Una vicenda spiacevole che comunque non pregiudicò la sua fiducia nel matrimonio tanto che, dieci mesi dopo avere ottenuto il tanto desiderato divorzio, convolò a nuove nozze con l’avvocato che l’aveva assistita.
Accursia Pumilia. Maestra e figlia di un noto avvocato socialista agrigentino, nel 1906 fu la prima donna a chiedere di essere iscritta nelle liste elettorali, contravvenendo di fatto alla legge che escludeva espressamente le donne dall’elettorato amministrativo. Bisognerà, infatti, attendere il referendum del 1946 per vedere finalmente concesso il voto anche alle donne.
Franca Viola. Vero e proprio simbolo dell’emancipazione femminile e della crescita civile degli anni ’60, dato che fu la prima donna in Italia a dire no al matrimonio riparatore, quella di Franca Viola è una storia di grandissimo coraggio e determinazione. Nata ad Alcamo nel 1948 da una famiglia umile, quando la ragazza era appena quindicenne i genitori ufficializzarono il suo fidanzamento con Filippo Melodia. Quest’ultimo, però, fu presto arrestato con l’accusa di furto e di appartenenza a una banda mafiosa, per cui la famiglia della giovane decise di rompere subito il fidanzamento. Una scelta che Melodia non accettò di buon grado, tanto da agire con la forza: rapì la ragazza ormai diciassettenne, la violentò e la tenne segregata per molti giorni.
Secondo la morale dell’epoca, Franca avrebbe dovuto fare la cosiddetta “paciata” (riparazione) per salvare il proprio onore e quello dell’intera famiglia. La giovane donna, però, grazie all’aiuto dei suoi genitori e delle polizia, riuscì a liberarsi da quell’atroce destino perché «l’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce». Un gesto rivoluzionario a cui non si può che dire grazie ancora oggi.
Felicia Bartolotta. Una delle figure più significative della lotta contro la mafia in Sicilia, suo malgrado negli anni è diventata un punto di riferimento per scolaresche, visitatori, giornalisti e magistrati, che sono andati a trovarla a casa per ascoltare la sua intensa e profonda testimonianza. Felicia Bartolotta, infatti, ha fatto di tutto per far incriminare i mafiosi responsabili della morte di suo figlio Peppino Impastato.
Sposata con Luigi Impastato, cognato di un capomafia di Cinisi negli anni ’50, nel corso della sua vita si è dovuta dividere tra un marito violento e appartenente a Cosa Nostra e il figlio, nettamente contrario alla mafia e alle sue collusioni con la politica. Dopo l’assassinio di Peppino, rigettando la cultura mafiosa della “vendetta”, cercò al contrario giustizia costituendosi parte civile nel procedimento contro i responsabili dell’omicidio. Contribuì così, con coraggio e impegno quotidiano, a smantellare il depistaggio sulle indagini inizialmente portato avanti dalla magistratura e dalle forze dell’ordine, secondo cui il figlio sarebbe morto in un attentato da lui stesso preparato. Nel 2000 La Commissione Parlamentare Antimafia ha confermato una serie di omissioni e deviazioni delle indagini, mentre il processo per la morte di Peppino Impastato si è concluso con la condanna all’ergastolo di Gaetano Badalamenti, quale mandante dell’omicidio, e con quella di Vito Palazzolo, condannato a 30 anni. Decisiva la testimonianza di Felicia al processo, ma ancora più significativa la scelta di aprire le porte di casa sua ai giovani per non smettere, fino all’ultimo, di coltivare la memoria e di piantare semi di consapevolezza per il presente e il futuro. «Tenete alta la testa e la schiena dritta», diceva loro.
Claudia Rizzo – Palermo Post