Oggi, 7 dicembre, ricorre un triste anniversario: l’assassinio di Pietro Busetta, in un agguato di stampo mafioso a Bagheria.
A distanza di quasi 40 anni da quell’uccisione efferata in maniera spietata, accostata ad una parentela scomoda, e ad una somiglianza con il cognome di un collaboratore di giustizia, che sembra quasi la beffa di un destino crudele, rimane confermata l’ipotesi di una vendetta trasversale comandata dai vertici di Cosa Nostra.
Pietro Busetta, era, infatti, cognato di Tommaso Buscetta, ex boss mafioso, che con le sue confessioni aveva aperto un vero e proprio “varco” sugli affari e i misteri delle famiglie mafiose palermitane.
Grazie all’opera instancabile di Giovanni Falcone, uno dei primi magistrati a capire l’importanza fondamentale dei collaboratori di giustizia per sconfiggere la mafia, venne aperto uno spiraglio di luce fra gli angoli bui che si annidavano negli “antri” di inchieste giudiziarie rimaste bloccate per molti anni.
L’hinterland Palermitano fu teatro negli anni ‘80 del secolo scorso di una guerra di mafia, in cui diverse famiglie si scontrarono per conquistare l’egemonia della “cupola”, il massimo organo dirigente della mafia; in questo scontro sanguinoso a contendersi il potere furono la fazione dei “palermitani” e quella in ascesa dei “corleonesi”.
Tommaso Buscetta, boss di punta della fazione dei “palermitani” che stava perdendo questo conflitto, decise di collaborare con la giustizia.
Le rivelazioni di Buscetta, conosciuto anche come “l’ex-boss dei due mondi”, nelle inchieste coordinate da Falcone permisero, per la prima volta, una dettagliata ricostruzione dell’organizzazione e della struttura della criminalità organizzata siciliana, e dando così inizio ad un declino del potere mafioso.
Per il clan dei corleonesi fu un duro colpo da accettare: la vendetta, anche se indiretta, o meglio trasversale, nei confronti dell’ex boss, appariva la giusta punizione, e fu cosi che venne sentenziata la condanna a morte di ben 14 dei suoi parenti; una delle vittime predestinate era proprio Pietro Busetta.
Pietro Busetta, che all’epoca aveva 62 anni, era un onesto lavoratore; un imprenditore che a Bagheria gestiva una piccola fabbrica di ceramiche, e un negozio di articoli da regalo.
Non aveva niente a che fare con la mafia, ma il semplice fatto di essere il cognato di un collaboratore di giustizia, di un “pentito”, fu ritenuto sufficiente dai boss mafiosi per farlo uccidere.
Busetta venne ucciso, poco prima delle 20,00, da dei sicari, che entrarono in azione a Bagheria in via Roccaforte, accanto allo stadio comunale.
Era appena uscito insieme alla moglie Serafina, sorella di Tommaso Buscetta, dal grande negozio di articoli da regalo di sua proprietà, e venne circondato da tre killer, che gli spararono usando pistole di grosso calibro, per poi darsi alla fuga.
Il presidente della Commissione antimafia di quel periodo Abdon Alinovi aveva detto: “C’è un importante detenuto che corre seri pericoli. Abbiamo avvertito il ministro dell’Interno che non era informato della specifica questione, ma si è mostrato estremamente sensibile”.
Il riferimento era chiarissimo e riguardava i fratelli, le sorelle, i nipoti di Tommaso Buscetta. I loro nomi, secondo gli investigatori, erano stati inseriti in un elenco abbastanza lungo di familiari di pentiti da “vigilare saltuariamente”.
Per i Busetta la sorveglianza era abbastanza agevole. Abitavano tutti al numero 147 di via Roccaforte: la sorella di Tommasino, il marito e i cinque figli (di cui quattro sposati).
Per ironia della sorte una volante della polizia era passata da quel budello di strada che si allunga fino alla strada nazionale per Santa Flavia, proprio dieci minuti prima dell’agguato.
La famiglia Busetta ha vissuto per anni sotto scorta, temendo ulteriori vendette nei loro confronti.
Dopo il brutale assassinio l’azienda di famiglia è stata colpita da una forte crisi economica: quasi nessuno dei clienti, infatti, voleva avere rapporti con quella che era considerata, a torto, una famiglia mafiosa.
Allo sconforto per la perdita di un loro caro, e alla costante minaccia di subire altre ritorsioni terribili, si aggiunse anche il dispiacere per una parte di società diventata, improvvisamente ostile; la sommatoria di questi elementi non poté che ottenere un solo, triste risultato: la famiglia Busetta a Bagheria, si ritrovò a vivere in una sorta di “limbo”, una “non vita”.
Il dramma della famiglia Busetta si unì, sia pur in modo parallelo, a quello di Tommaso Buscetta, che aveva già subito un autentico massacro dei suoi congiunti.
In piena guerra di mafia nel settembre del 1982 i suoi due figli: Benedetto e Antonio scomparvero, “inghiottiti” dalla lupara bianca.
Nel dicembre successivo un commando di killer fece irruzione nella pizzeria New York Place a Palermo uccidendo Giuseppe Genova, genero del super boss siculo-brasiliano, e due suoi cugini Onofrio e Antonio D’ Amico.
Appena tre giorni dopo l’ ultima azione di sangue: dei sicari killer assassinarono il fratello di Tommaso Buscetta, Vincenzo e il nipote Benni all’interno della fabbrica di vetro nella quale lavoravano.
Tommaso Buscetta, nonostante questo massacro dei suoi cari, operato in modo tremendamente lucido e sistematico, non si fermò e consegnò ai giudici palermitani Giovanni Falcone, e Vincenzo Geraci una lunghissima confessione, andando a delineare i confini territoriali della mafia palermitana, definendone anche l’ordine di gerarchia dal ruolo di boss, ai gregari, e uomini d’ onore.
Il risultato della deposizione di Buscetta fu enorme: ben 366 mandati di cattura che consentirono a inquirenti e magistrati palermitani di far scattare il clamoroso blitz di San Michele del 29 settembre del 1984, e chiarire i misteri su quattordici anni di delitti di mafia.
In questa guerra tra stato e mafia, a pagarne le conseguenze (così come accade in tutte le guerre d’altronde) furono soprattutto gli innocenti, proprio come Pietro Busetta e la sua famiglia.
Una ragione in più, per non lasciarli mai soli i familiari delle vittime, e fare ognuno la propria parte, nel suo piccolo per non perdere la speranza in un mondo migliore, in cui ci possa essere sviluppo nella legalità.