Ospite del Cine Talk del Sicilia Film Fest, Fabrizio Ferracane, attore poliedrico classe ’75, cresciuto tra Castelvetrano e Palermo, si trasferisce a Roma quando decide di fare della sua passione anche la sua carriera. Dopo anni nella capitale, costellati di tanti successi personali, decide di tornare a vivere nella sua terra natia.
Come mai hai deciso di lasciare il centro di gravità del cinema italiano per tornare in Sicilia?
Roma è una città che non ho mai sentito mia, non mi è mai appartenuta. Ho sempre sentito più vicino a me il paese di Castelvetrano, ma anche Palermo, perché i miei genitori comunque lavorano a Palermo da cinquant’anni e io ho fatto la scuola di teatro con Perriera e poi ho fatto anche l’obiettore di coscienza a Palermo. Quindi Palermo comunque è sempre presente, sia per la mia famiglia, che per la mia vita. Infatti, da sei anni ci sono tornato a vivere. Si può dire che tutto nasce da Palermo, ormai più di vent’anni fa, facendo la scuola teatrale di e con Michele Perriera e, anche se non ho capito subito che dovevo fare questo mestiere, la scelta è arrivata dopo un lungo periodo di maturazione. Infatti, oggi sorrido quando sento i giovani dire voglio fare Tv, voglio fare l’attore. Una cosa è la passione, un’altra cosa è intraprendere un mestiere.
Di cosa è fatto questo mestiere per Fabrizio Ferracane?
dipende da cosa vedi, da che stimoli hai. Mi ricordo, per esempio, quando andavo al liceo mi portavano a vedere gli spettacoli a Palermo al Teatro Biondo. Li vedevo, mi interessava la sensazione che provavo. Un altro ricordo, ancora molto forte e nitido, è quello di uno spettacolo che ho fatto quando avevo 12 anni, che feci al paese (Castelvetrano): Miseria e Nobiltà di Scarpetta, il classico film di Totò con la pasta in tasca, io facevo Pippiniello. Prima di entrare in scena io vedevo le teste del pubblico, vedevo queste teste ferme immobili, sentivo il loro respiro, sentivo la loro energia. Lo spettacolo si fa in due, non lo fa solo l’attore. Lo spettacolo nasce quando c’è una sinergia, un’energia che passa attraverso il pubblico. Perché se io sento un uomo che sta sbadigliando in prima fila, allora la mia battuta sarà diversa, deve essere per forza diversa.
Quando hai capito che sarebbe diventato il tuo mestiere?
Dopo la scuola con Michele Perriera, volevo continuare a capire cosa fosse questo mestiere. Ed ho cominciato a fare laboratori, che una volta erano stupendi, perché duravano minimo due settimane. Adesso fai i laboratori di due giorni con 70 / 50 persone e non ne capisco il senso. Invece, io per farli dovevo per forza spostarmi a Roma, anche se ne ho fatti in tutto il paese. Li andai a fare a Milano, a Ravenna con Marco Martinelli, ma scendevo anche a Palermo con Mimmo Cuticchio, Franco Scaldati, buonanima. Ricordo un seminario di un mese con una regista tunisina. Quindi, ho avuto modo di capire che sarebbe stato il mio mestiere. Ho cominciato a sperimentare e a sentire le cose da attore, perché l’attore non è altro che colui che sente ed è anche colui che si corrompe.
Corrompe in che senso?
Io sono sempre convinto di questa cosa. Recitare è un atto di trasformazione ed è la cosa che mi interessa maggiormente, cioè mi interessa infilarmi in un respiro che sia nuovo, in un sangue che sia nuovo, in una pelle nuova, in un modo di camminare nuovo e diverso. Fra un po’ esce il nuovo film di Emma Dante, dove faccio un personaggio che penso molte persone diranno: “ma quello è Fabrizio?”
Ed a proposito di trasformazione, come è stato vestire i panni di Pippo Calò? l’incarnazione del male, il traditore del traditore?
In realtà ho vestito i panni del male più volte. L’ho interpretato, per esempio, anche in un film di Dario Copellini “La terra dei figli” dove faccio Aringo, un personaggio di una cattiveria mostruosa. Diverso è stato fare Pippo Calò, perché era una persona e una storia conosciuta, tratta dal reale. Si rischiava di fare un Doppione, ma né io né Marco volevamo questo. Dico adesso Marco, ma per mesi l’ho chiamato signor Bellocchio, poi a un certo punto lui mi disse: “… e basta signor Bellocchio!”. Un retaggio dell’educazione dei miei genitori. Comunque, anche a Marco interessava che io ci mettessi del mio. Ed è andata benissimo anche perché mi non divertirei senza la mia interpretazione del personaggio.
Per fare Pippo Calò mi sono aiutato molto vedendo dei video, ma senza il sonoro, non volevo sentire quello che diceva e la sua voce, volevo studiare come si muoveva, come si vestiva, la sua mimica ecc… Era un uomo che aveva un’autentica passione per i vestiti belli e l’arte. A Roma gli hanno trovato tipo tre garage pieni di quadri, di statue, di dipinti, questo mi interessava del male. Cioè il male della della ricchezza. L’altro aspetto interessantissimo è stato esplorare il suo tradimento. Perché, comunque, lui è un uomo che ha tradito un amico. E quindi per me, per Fabrizio Ferracane cosa significa tradire?
Il Traditore è un film che mi ha dato tanto, mi ha fatto vincere il nastro d’argento insieme a Luigi. Male e Cattiveria, sì, sono sempre personaggi ricchi di fascino e torno ad Aringo, che in un film sulla fine del mondo, dove non è rimasto più nessuno, ci sono questi uomini e sono tutti cattivi, perché devono essere cattivi, perché se non sono cattivo io, lo sei tu e mi freghi! Una sorta di inevitabilità del male, in un personaggio che mi è rimasto.
Quando l’attore smette di essere il personaggio?
L’attore è sempre l’attore, soprattutto con l’esperienza, quando io ascolto ciak o motore divento Aringo o Pippo Calò, quando la scena finisce sono Fabrizio Ferracane, sono tutte cazzate quelle di chi dice che è difficile uscire ed entrare dai personaggi. Piuttosto per costruire un personaggio ho imparato che si deve studiare molto. Questo mestiere è anche musica, musica classica, dipinti. Io amo da morire i dipinti, per esempio se penso ad uno dei quadri di Bacon con un uomo rannicchiato in una posizione quasi fatale, io mi immagino come può muoversi e parlare un uomo così, ci costruisco un personaggio, appunto.
E quale è il personaggio che ha divertito di più Fabrizio Ferracane?
È quello che ringrazio ancora, perché mi ha anche dato la visibilità maggiore, che poi è quello che tutti gli attori chiedono di avere. Una possibilità, io ho tantissimi amici che sono dei talenti, ma in qualche modo non hanno avuto la possibilità. Purtroppo in Italia ci sono certi meccanismi per cui se hai barba e più di quarant’anni allora puoi fare il padre …… ma quando mai!! Io sono attore e lo sono per qualsiasi cosa, posso fare qualsiasi cosa. Comunque, ti dicevo che mi ha divertito molto fare Luciano di “Anime nere“.
Il personaggio (sempre per quella cosa della trasformazione) è un padre che cerca di difendere con gli scudi i propri figli e per farlo uccide anche un fratello. Anche il personaggio dell’ultimo film che ho fatto in Sardegna mi ha divertito. Mi ha divertito perché finalmente ho letto una sceneggiatura estremamente interessante e bella. Sul lavoro nelle miniere, un settore economico che ha cadenzato la vita della Sardegna per tanto tempo. Una storia di amicizia e di fratellanza molto bella. Sì, lì mi sono divertito.
Per tornare alla prima domanda. Quanto è difficile fare arti espressive nella provincia?
Non si può semplicemente fare. È normale che in un paese di 600 o 6000 persone non puoi farlo, perché non hai relazioni e ci sono città che in questo ambiente determinano. Roma, si sa, è la città che determina il cinema e poi le altre città dove vai a girare. Ma in provincia ed in periferia ha senso farlo con spirito pro-sociale ed è una cosa importantissima. Se lo fai con i ragazzini della periferia a Castelvetrano, per esempio c’è un quartiere a Castelvetrano che è chiamato Bronx oppure in carcere, allora sono cose di valore inestimabile. Feci uno spettacolo nel carcere di Castelvetrano e fu una delle repliche più belle che feci di “Ferro Vecchio“, fu incredibilmente emozionante perché lì dai, lì dai davvero.