Il gorgo della violenza torna a inghiottire vite umane ai margini della Conca d’Oro. L’eco tragica degli spari che hanno funestato Monreale questa notte, attribuita a giovani provenienti dallo ZEN, non è che l’ultimo, lancinante acuto in una sinfonia dissonante che Palermo ascolta da decenni. È la cronaca di una dissoluzione annunciata, quella di un quadrante urbano che funge da cartina di tornasole per l’impotenza, talvolta la colpevole miopia, di una politica incapace di andare oltre la gestione dell’emergenza o la cosmesi sociale.
Per anni, lo ZEN è stato il palcoscenico su cui si è celebrato il rito stanco dell’interventismo pubblico con l’illusione demiurgica del “recupero”, progetti calati dall’alto come formule taumaturgiche, tavoli tecnici e passerelle. Un armamentario retorico imponente, volto a esorcizzare la paura e a placare le coscienze. Eppure, la cruda fenomenologia del crimine, meticolosamente documentata anche dalla sfilza di omicidi e tentati omicidi degli ultimi decenni, ci restituisce un’immagine refrattaria a ogni ottimismo di maniera.
Non è un mero elenco di fatti di sangue; ma piuttosto un trattato sulla persistenza di logiche arcaiche e feroci incistate nella modernità urbana. In quelle storie insanguinate si legge la grammatica della faida, con famiglie contrapposte in una lotta per l’egemonia territoriale che non esita a utilizzare il “metodo mafioso” come strumento di affermazione e terrore, come nel caso emblematico del tentato omicidio multiplo Colombo-Maranzano. Vi si scorge il tempo circolare della vendetta, capace di riannodare i fili dell’odio a distanza di anni, come suggerisce il legame oscuro tra il duplice omicidio Lupo del 2019 e l’agguato ad Antonino Fragale del 2024, parente del loro assassino. Vi si delinea il profilo di un’economia parallela e illegale, fondata sullo spaccio e sul controllo capillare delle risorse, finanche degli alloggi popolari.
Di fronte a questa realtà materiale, ostinatamente documentata, stride il ricordo delle stagioni politiche che hanno fatto dello ZEN un simbolo, una sfida, una promessa. La lunga era di Leoluca Orlando, con il suo afflato progressista e l’attenzione dichiarata alle periferie, appare oggi, riletta attraverso la lente di questo fallimento persistente, come un’occasione mancata, forse viziata da un eccesso di fiducia nella capacità taumaturgica delle politiche sociali disgiunte da un controllo reale del territorio e da una visione urbanistica radicale. Le risorse profuse si sono disperse come acqua sulla sabbia, incapaci di incidere su quella che appare sempre più come una patologia strutturale.
Lo ZEN, e segnatamente lo ZEN 2, non è semplicemente un quartiere difficile. È un’utopia negativa, un errore urbanistico concepito negli anni ’60 che si è trasformato in una ferita sociale purulenta, un “non-luogo” dove le regole della convivenza civile sembrano sospese. Un’enclave dove la sovranità dello Stato è sfidata quotidianamente, non solo dalla criminalità organizzata, ma da una diffusa cultura della violenza e dell’illegalità che permea il tessuto sociale.
Allora, forse, la domanda che dobbiamo porci, con la lucidità che l’orrore dovrebbe imporci, è più radicale. È giunto il momento di abbandonare la retorica consolatoria del “risanamento”, del “recupero”, del “progetto speciale”? Ha ancora senso praticare una sorta di accanimento terapeutico su un organismo urbano la cui stessa concezione e struttura sembrano favorire la marginalità e la devianza? Possiamo permetterci, come collettività, di mantenere in vita una simile anomalia urbanistica e sociale, sperando che qualche intervento palliativo ne mitighi gli effetti più nefasti?
L’ultimo, tragico evento, che lega indissolubilmente le vite strappate a Monreale al cuore oscuro dello ZEN, non è un incidente di percorso, ma un sintomo acuto che esige una diagnosi non più procrastinabile e, forse, una terapia chirurgica. Continuare sulla strada delle buone intenzioni disarmate e degli investimenti inefficaci significa condannare altre vite, coltivare l’illusione e tradire il mandato primario della politica: garantire sicurezza e condizioni di cittadinanza degne. Serve un coraggio intellettuale e politico che vada oltre le consuete litanie, per affrontare la questione ZEN nella sua essenza più scomoda: non un problema da risolvere, ma forse un cancro urbanistico da estirpare per sempre, da cancellare con esplosivo e ruspe come le due vele di Scampia a Napoli.