C’era una volta un’idea nobile, forse la più alta mai concepita nella storia repubblicana italiana: unire le due grandi culture popolari del Novecento — quella cattolico-sociale e quella comunista riformata — in un grande soggetto progressista, capace non solo di governare ma di rappresentare, pacificare, traghettare l’Italia fuori dal secolo breve. Un’idea che aveva il volto umano, severo e visionario di Aldo Moro, e quello rigoroso, lucido e moderno di Luigi Berlinguer. Due uomini distanti nella genealogia politica, ma uniti da una medesima consapevolezza: non si può governare stabilmente il paese con metà Italia contro, non si costruisce una democrazia matura sulla logica dell’alternanza rancorosa.
Quella visione, maldestramente etichettata come “compromesso storico”, fu molto più di un patto tattico: era un progetto di civiltà, il tentativo di cucire con il filo della responsabilità le ferite ancora aperte della guerra civile e degli anni di piombo. Ma il destino, si sa, è beffardo. Moro venne rapito e ucciso, Berlinguer morì lasciando dietro di sé un partito orfano di spinta propulsiva. E le rispettive culture politiche, invece di evolvere in direzione di un nuovo umanesimo democratico, si fossilizzarono.
Quel sogno mai realizzato tentò di reincarnarsi nel Partito Democratico, fondato nel 2007 come “partito a vocazione maggioritaria”. Un progetto ambizioso, forse presuntuoso, ma necessario. Riunire le eredità post-comunista e post-democristiana per costruire una sinistra moderna, europea, di governo. E invece — come nei peggiori racconti di tradimenti — il PD è diventato una caricatura ingessata dei suoi stessi antenati, il contenitore esausto di nomenclature riverniciate, vecchie nei metodi anche quando giovani nei volti.
Oggi il PD non ha né la massa, né la vocazione, né la maggioranza. In Sicilia, isola laboratorio di ogni contraddizione italiana, il quadro è addirittura grottesco: circa 15000 iscritti — lo 0,3% dei cittadini maggiorenni. Una cifra che dovrebbe far arrossire chi ancora ha il coraggio di definirlo “partito di massa”. Eppure, mentre fuori il mondo cambia, mentre la povertà si allarga, mentre i giovani abbandonano l’isola e il Sud si spopola, il Partito Democratico discute solo di se stesso. Un congresso regionale ridotto a sfida per stabilire chi continuerà a sedere all’Assemblea Regionale Siciliana, chi sarà cooptato a Roma, chi garantirà la sopravvivenza di questo o quel capobastone.
Non un dibattito sulla vita reale, non un’idea sulla Sicilia, non un progetto per riformare una macchina amministrativa che va avanti a carta, penna e protocollo. Solo un lento gioco al massacro, consumato tra una mozione e un regolamento, mentre il paese reale guarda altrove, disilluso e stanco. Il PD è diventato il partito dei congressi perenni, delle correnti camuffate da rinnovamento, della nuova generazione che ha imparato in fretta i vizi di quella vecchia: fare carriera senza passare dalla società, nominarsi tra sé e sé, blindare liste e ruoli con la logica del club esclusivo.
Da un lato, ci sono i professionisti del mestiere parlamentare, quelli che da trent’anni siedono nei palazzi senza aver mai messo piede in una fabbrica, in un ospedale, in un’aula scolastica. Gli esperti del bilancino e della mozione, affilati nel cinismo e ciechi di prospettiva. I loro alleati sono burattinai senza pubblico, illusionisti della politica interna convinti che prima o poi toccherà a loro, che basta resistere, che il vento cambierà. Ma hanno il carisma di un calamaro ubriaco, e intorno solo cortigiani e clienti, mai popolo.
Dall’altro lato, sfilano i finti innovatori, quelli che sembrano nuovi ma hanno il respiro corto delle retrovie. Si rifugiano nelle categorie di un marxismo d’altri tempi, parlano di lavoro e di sindacato come se il Novecento non fosse mai finito. Peccato che il mondo sindacale, oggi, rappresenti per il 90% i pensionati. Parlano al passato remoto, ma fingono futuro. Una classe dirigente che ha dimenticato la società e vive chiusa nei codici interni di una politica che non parla più al popolo, ma solo a sé stessa.
E così il PD si consuma, passo di gambero dopo passo di gambero, nel tentativo di inseguire un’identità mai davvero trovata. È rimasto prigioniero del suo stesso linguaggio, delle sue liturgie stanche, della paura di Berlusconi che fu l’unico vero collante. Ora che Berlusconi è storia non resta più nulla, se non l’inerzia delle strutture e il ritualismo delle tessere. Un partito che nasceva per unire il paese oggi non unisce nemmeno se stesso. Un partito che doveva rappresentare la maggioranza oggi è minoranza permanente, più per abitudine che per strategia.
Eppure fuori, nel paese reale, la vita continua. La gente lavora, soffre, spera. Le imprese arrancano, i giovani emigrano, le famiglie si scontrano con servizi insufficienti e promesse mancate. Il futuro è affamato di politica vera, di idee nuove, di proposte coraggiose. Ma il Partito Democratico sembra non sentire. È come chiuso in una stanza ovattata, dove l’unico rumore è quello delle proprie voci, delle proprie dispute, dei propri piccoli destini. Non si ascolta il paese, si ascolta solo la propria eco.
Così, osservando il congresso del PD in Sicilia, non si può che sorridere amaramente. Perché non è più politica, ma rappresentazione, non è più progetto, ma teatro. Un’autocelebrazione permanente senza pubblico, una struttura burocratica che ha perso l’anima.
Così, dopo un quarto di secolo trascorso attraversando questo mondo assolutamente scisso dagli ideali ispiratori, ostaggio dello stalinismo nel senso più stretto del termine, osservo divertito e finalmente libero dall’illusione il loro congresso con la consapevolezza che, semmai aprirò nuovamente una scheda elettorale, lo farò con quella lucida elementarità tanto cara ad Antoine de Saint-Exupéry:
so dove stanno i cattivi, e metterò la X dall’altro lato. Sarò ben lieto di essere considerato un traditore di quelle menzogne, pur di restare lontano dalla prosopopea di chi si crede depositario della verità rivelata, apostolo di un pensiero salvifico che sa più di incantesimo da pifferaio magico che di autentica Politica.