C’è qualcosa di malinconico – e insieme di profondamente irresponsabile – nella maniera con cui una parte della sinistra italiana continua a evocare il paradigma novecentesco del conflitto capitale-lavoro come chiave interpretativa dell’economia contemporanea. È un gesto meccanico, quasi liturgico, che non nasce da una lettura reale dei rapporti di forza nel mercato globale, ma da un riflesso condizionato, da una prassi ideologica svuotata di ogni aderenza alla realtà. Come certi teologi che dissertano sull’anima mentre il mondo brucia, la CGIL e il Partito Democratico ostentano ancora la retorica della contrapposizione tra sfruttatori e sfruttati, mentre le dinamiche del lavoro – e soprattutto quelle della sua trasformazione – esigono oggi una grammatica nuova, mobile, post-conflittuale.
La sinistra italiana, fedele a un impianto concettuale ispirato al più rigido economicismo marxista, ha perso da tempo la capacità di comprendere il mutamento. La sua è una miopia culturale che sfiora il rifiuto patologico della realtà: mentre l’intero Occidente discute di intelligenza artificiale, di co-working, di nuove diseguaglianze generate dalla disintermediazione algoritmica e dalla polarizzazione delle competenze, il dibattito italiano torna ossessivamente sui voucher, sull’articolo 18, sulla precarietà come stigma eterno. È la sindrome del disco rotto: ogni tentativo di riforma viene demonizzato come liberalizzazione selvaggia; ogni innovazione contrattuale come tentativo padronale di eludere diritti inalienabili.
Questa cecità è culminata ieri nel fallimento dei referendum sul lavoro, promossi con ostinazione e miopia da chi pretende ancora di dettare l’agenda politica a partire da archetipi sclerotizzati. Non solo non è stato raggiunto il quorum, ma soprattutto non si è riusciti a innescare alcuna riflessione degna di questo nome sul senso profondo del lavoro nel nostro tempo. È mancata la dimensione del pensiero, quella capacità – un tempo propria delle grandi forze popolari – di cogliere l’insieme dei processi, anziché aggrapparsi a un singolo istituto giuridico come fosse la linea del Piave. I milioni spesi per questa consultazione si sommano al costo, ben più grave, di un’occasione perduta: quella di confrontarsi sul destino reale del lavoro in Italia e in Europa, sulla sua evoluzione, sui rischi e le potenzialità di una trasformazione epocale in atto da decenni.
Ma davvero il lavoro può ancora essere letto come terreno di scontro, come teatro di una guerra sociale permanente? È arrivato il tempo di demistificare l’idea secondo cui il mercato del lavoro debba essere governato da una dialettica tra forze antagoniste. Quando oggi l’ordine economico spontaneo nasce dalla convergenza di milioni di decisioni individuali, non dalla loro repressione attraverso accordi rigidi o da ingegnerie sociali. Oggi la tanto cara emancipazione dei lavoratori diventa possibile attraverso l’innovazione, la creatività, l’intraprendenza personale, nella valorizzazione dell’individuo.
In questa cornice, la narrazione marxista appare come un artefatto concettuale datato, incapace di contenere la complessità della postmodernità produttiva. Il lavoro non è più soltanto fatica o alienazione: è anche, e sempre più, autorealizzazione, conoscenza, valore aggiunto immateriale, soprattutto in un paese in cui la produzione industriale da classica catena di montaggio fordista è sempre più marginale. I modelli teorici che continuano a inquadrarlo come subalternità sono fallaci non solo sul piano empirico, ma anche etico, perché impediscono al soggetto di pensarsi come protagonista del proprio destino economico, ammassandolo in una classe senza la quale non può neanche percepirsi.
In Europa, molti Paesi hanno colto da tempo questa metamorfosi. La Germania, ad esempio, ha saputo integrare rappresentanza sindacale e governance aziendale in forme avanzate di codeterminazione. I lavoratori siedono nei consigli di sorveglianza, discutono le strategie, partecipano alla visione industriale delle imprese. Non c’è conflitto, c’è corresponsabilità. In Svezia, lo storico patto tra Stato, imprese e sindacati ha prodotto un mercato del lavoro dinamico, nel quale la flessibilità è compensata da investimenti imponenti in formazione e riqualificazione. L’Olanda ha istituzionalizzato la cultura del compromesso attraverso il modello del polder, costruendo un dialogo sociale continuo, pragmatico, refrattario alle ideologie. In Italia, invece, il capo del più grande sindacato sembra essere stato appena scongelato dal 1953, mentre la leader dell’opposizione si aggrappa a quel mondo pur di sconfessare chi nel proprio partito aveva tentato di intraprendere una stagione riformatrice e post-ideologica.
I referendum non sono falliti perché siamo andati al mare, o perché il popolo italiano è ignorante, brutto e cattivo, ma piuttosto perché ormai due terzi del paese hanno chiaro che il lavoro può essere regolato meglio proprio là dove si rinuncia all’idea del nemico. Dove le forze produttive non si affrontano in un’eterna lotta, ma si incontrano, si accordano, negoziano, costruiscono. Dove la rappresentanza sindacale evolve in funzione della realtà, anziché ancorarsi a una mitologia operaista ormai insostenibile.
È questa la lezione che in Italia si continua ostinatamente a ignorare. La sinistra, incapace di leggere i codici del presente, si rifugia nella nostalgia del passato. E mentre altrove si discute di competenze digitali, di sostenibilità industriale, di piattaforme tecnologiche e robotica collaborativa, qui si celebrano liturgie vuote. Invece di progettare il futuro, si perpetua una memoria distorta del Novecento, dove ogni crisi è colpa del neoliberismo, ogni riforma una trappola, ogni innovazione un attacco ai diritti.
Ma il lavoro non aspetta. Cambia, si trasforma, muta pelle ogni giorno. E chi non lo comprende, ne resta escluso. Non basta più “difendere” i lavoratori: occorre abilitarli. Renderli capaci di affrontare le sfide di una nuova era economica. Formazione continua, mobilità professionale, adattabilità: sono queste le nuove garanzie. E solo una politica che sappia investire in capitale umano potrà garantire davvero uguaglianza e opportunità.
Chi, come la CGIL e il PD, si ostina a usare gli strumenti concettuali del secolo scorso, non solo tradisce il proprio mandato storico, ma danneggia la stessa causa che pretende di rappresentare. Il lavoro non si tutela con le barricate, ma con le idee. E oggi, quelle idee mancano del tutto. L’unica cosa che resta è una ritualità spenta, che genera solo disillusione e astensione.
Il fallimento dei referendum di ieri non è stato un incidente. È stato un giudizio. Un popolo stanco ha voltato le spalle a chi finge di parlare in suo nome, ma non ne comprende più i bisogni. E forse, è proprio da qui che bisogna ripartire: dal silenzio eloquente di chi non è andato a votare. Un silenzio che dice, senza ambiguità: basta con le nostalgie, vogliamo soluzioni.