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quadro di un inquisitore usato come metafora della politica populista
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Editoriale

L’Inquisitore dei Nostri Giorni e il Vuoto della Politica Siciliana

Simone Di Trapani
Ultimo Aggiornamento: 26 Maggio 2025 10:05
Simone Di Trapani
Pubblicato 26 Maggio 2025
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Studio Erre

C’è un suono ormai familiare nella politica italiana contemporanea: non è quello della proposta, ma dell’accusa. Non è il passo lento, faticoso e necessario della progettualità, ma il clangore furioso delle invettive. Un’eco antica, che dai tempi di Tangentopoli si ripresenta ciclicamente in forme nuove, rinnovate nella retorica ma eguali nella sostanza. A ogni stagione di crisi della rappresentanza, si affaccia sulla scena un nuovo inquisitore, un moderno Savonarola in abiti civili, pronto a scagliare le sue maledizioni morali contro il “marcio” del sistema. In Sicilia, in queste settimane, assistiamo all’ascesa dell’ennesima reincarnazione del fenomeno: un novello Thomas De Torquemada, autoproclamatosi difensore dell’onestà e della trasparenza, che si muove tra le macerie del consenso come se la politica fosse una crociata e non una responsabilità.

Chi è costui? Poco importa il nome – che cambierà al prossimo giro di valzer elettorale – perché l’archetipo è fin troppo noto. È il politico senza programma, senza competenze specifiche, senza un’idea strutturata di governo. Ma è anche il personaggio perfetto per il nostro tempo: aggressivo quanto basta, mediaticamente funzionale, abilissimo a intercettare il malcontento e a cavalcare la sfiducia verso “i partiti tradizionali”. Si nutre della rabbia dei cittadini come un parassita del corpo esausto che abita, la rilancia con toni apocalittici e la riconsegna come verità indiscutibile, evitando con cura l’unico terreno su cui si misurano davvero le leadership: quello delle proposte concrete.

È l’eterno ritorno dell’anti-politica travestita da moralismo, un meccanismo che abbiamo visto ripetersi con spaventosa regolarità. Dai “giustizialisti” di primo pelo degli anni Novanta, passati con disinvoltura da pubblici accusatori a fruitori dei privilegi parlamentari, fino alle recenti figure che, una volta arrivate al potere, si sono rivelate incapaci di trasformare la rabbia in riforma. Quante volte abbiamo già assistito al dramma farsesco del moralista folgorato dal potere? Quanti di questi sedicenti paladini della trasparenza, una volta giunti nei palazzi istituzionali, si sono rivelati altrettanto opachi, opportunisti, accomodanti?

In Sicilia, questa dinamica si manifesta in modo particolarmente violento. È un’isola che da decenni vive nel paradosso della domanda di cambiamento e del rifiuto del cambiamento strutturale. Qui l’inquisitore attecchisce facilmente, perché il terreno è fertile: la sfiducia nei confronti della politica è ormai parte del paesaggio, alimentata da decenni di promesse tradite, mala gestio, clientele. Ma la facile accusa non è mai accompagnata da una vera progettualità. Nessuno chiede, o pretende, che gli accusatori parlino di conti pubblici, di piani industriali, di politiche per la salute o per la casa. Nessuno li interroga su come intendano gestire i rifiuti, la sanità, i trasporti, o su quale visione di sviluppo abbiano per il Mezzogiorno d’Italia.

Eppure, è da lì che bisognerebbe cominciare. Quali misure proporrebbe il nostro inquisitore per trattenere i giovani che fuggono dalla Sicilia a migliaia ogni anno? Ha un’idea, una sola, su come incentivare gli investimenti produttivi senza ricorrere all’ennesimo festival dei contributi a pioggia? O forse crede che la sola evocazione dell’onestà sia sufficiente a creare occupazione e sviluppo?

È questo il vero vuoto che si nasconde dietro la retorica inquisitoria: la totale assenza di una visione del futuro. L’onestà, pur sacrosanta, non è un programma di governo. È il prerequisito minimo. Non può essere l’unico vessillo, perché la politica, quella vera, è fatta di scelte difficili, di compromessi talvolta dolorosi, di una capacità di gestione che non si improvvisa in nome di una purezza morale sbandierata a ogni piè sospinto.

In fondo, l’inquisitore di oggi non è molto diverso dal politicante di ieri. È solo più abile nel mascherarsi, più moderno nell’usare i mezzi di comunicazione, più bravo a nascondere la propria inconsistenza dietro slogan etici. Ma il risultato è lo stesso: un sistema che si perpetua nella sua inefficienza, in cui la giostra continua a girare e ogni volta riparte dallo stesso punto. Chi urla contro il sistema, alla fine, trova posto in quel sistema e se ne nutre. E i cittadini? Continuano a essere spettatori disillusi, convinti che davvero basti un volto nuovo per cambiare un sistema che richiede ben altro: competenza, visione, coraggio amministrativo.

Il moralismo da talk show, l’ossessione per il “nemico interno”, la continua ricerca del capro espiatorio sono solo sintomi di una malattia più profonda: la rinuncia al pensiero politico. In Sicilia, questa rinuncia ha conseguenze devastanti. Qui servirebbero idee forti, progetti coraggiosi, una classe dirigente capace di guardare oltre il ciclo elettorale. Servirebbe un investimento sulla scuola, sulla formazione, sull’innovazione. Servirebbe parlare di fiscalità, di energia, di nuove filiere produttive. Servirebbe, insomma, la Politica con la “P” maiuscola.

Invece, ci troviamo ancora una volta a commentare l’ascesa dell’ennesimo moralista senza curriculum, armato di proclami e privo di soluzioni. È un gioco vecchio, ormai logoro, eppure ancora pericolosamente efficace. Perché funziona su un terreno devastato, su una fiducia collettiva ormai erosa, su una cultura politica ridotta a tifoseria.

Ma la Sicilia, con la sua storia millenaria e la sua potenza creativa inespressa, merita di più. Merita una politica che torni a essere progetto e non solo denuncia. Che non si accontenti di demolire, ma che sappia costruire. Che pretenda onestà, certo, ma anche visione. Che non si limiti a scagliare pietre, ma che si metta al lavoro per edificare. Altrimenti, continueremo a sostituire un inquisitore con l’altro, in un ciclo sterile e perverso che non lascia spazio alla speranza.

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